Ha ancora senso parlare di grandi dimissioni?

Dagli ultimi dati provenienti da oltreoceano, il fenomeno della “Great resignation”, che aveva caratterizzato il mercato del lavoro post pandemico, è ormai finito. Negli USA, infatti, i lavoratori hanno smesso di dimettersi in massa, scoraggiati dallo scenario economico attuale e i numeri dell’occupazione sono tornati a essere quelli del 2019. Cosa succede invece in Italia? Ne abbiamo parlato con Paolo Iacci, docente di Gestione delle risorse umane all’Università statale di Milano, presidente di AIDP Promotion e di Eca Italia

Paolo Iacci

Professor Iacci, entriamo subito nel vivo della questione. Il fenomeno delle grandi dimissioni che dimensioni ha avuto? È in crescita o l’abbiamo ormai alle spalle? 

«Nel primo semestre del 2023, secondo quanto dichiarato dall’Inps, in Italia abbiamo registrato 3,3 milioni di cessazioni e sono stati attivati 4,3 milioni di nuovi contratti, con un saldo attivo di circa un milione di rapporti di lavoro. Le cessazioni nell’intero 2022 erano state 2,2 milioni. Un numero in aumento del 13,8% rispetto al 2021, quando in totale erano state un milione 930mila. Come si vede, le “grandi dimissioni” per ora sono in costante crescita. Il nostro Paese è interessato a questo fenomeno, al pari degli altri Paesi industriali avanzati. Nel 2021 negli Usa quarantotto milioni di persone hanno deciso di licenziarsi. Nel 2022 e 2023 il numero sta crescendo ulteriormente. Milioni di persone decidono di abbandonare il proprio posto di lavoro. In qualche caso anche senza avere un’alternativa immediata, ma nella grande maggioranza dei casi lasciano semplicemente un’azienda per un’altra. Soprattutto in Italia le persone non hanno abbandonato il posto di lavoro senza un’alternativa. Non si sono fidate di un mercato del lavoro tradizionalmente poco vivace. Le dimissioni hanno avuto incrementi percentuali come mai prima, ma nel nostro Paese non hanno mai assunto una forma di salto nel buio, tutt’altro. Più che di “grandi dimissioni”, io parlerei di un “grande rimpasto”». 

Nessuna forma di rifiuto del lavoro, allora? 

«Chi ha voluto leggere in questo fenomeno una sorta di ribellione spontanea contro il lavoro tout court non ha tenuto conto di un altro dato clamoroso. in Italia non si è mai lavorato così tanto come oggi. Il tasso di occupazione è del 61,2%, il più alto dell’ultimo mezzo secolo. Nel corso dell’ultimo anno, gli occupati sono saliti di 500mila unità. Il tasso di disoccupazione è calato al 7,6% e quello dell’inattività è al 33,7%. Altro che fuga dal lavoro! Il numero di persone occupate, più di 23,3 milioni, non è mai stato così alto!».  

Chi si dimette trova in genere una sistemazione migliore? 

«Una recente ricerca di Hunters Group afferma che una parte molto significativa di dimissionari si sono presto pentiti e, dopo pochi mesi dall’inizio del nuovo lavoro, sarebbero già pronti a ritornare indietro. Il 32% degli intervistati si ritiene poco o per nulla soddisfatto del cambio di lavoro e il 29% sarebbe disposto a tornare sui propri passi. Davanti alla difficoltà di reperimento di nuovo personale con le necessarie competenze, molte imprese hanno iniziato a monitorare i loro dimissionari e, dopo un certo periodo prova, a riportarli indietro».

Quali sono le cause di un fenomeno così ampio che investe tutti i Paesi industriali avanzati? 

«Dietro a questo “rimpasto” si scorgono motivazioni diverse. Prima di tutto, la pandemia ha spinto la grande maggioranza delle persone a riflettere sulla propria vita e a ridefinirne le priorità. La salute, la famiglia, gli affetti e la felicità vengono considerati molto più importanti del semplice successo lavorativo fine a sé stesso. Vi è una richiesta di motivazione, di engagement profondo, a cui le imprese non riescono per ora a dare una risposta convincente. A questa richiesta diffusa di senso dell’esperienza lavorativa si aggiunge un malessere collettivo, che investe non solo le imprese ma l’intera società civile. La gente sta male, dà le dimissioni, se ne va dalle aziende perché per la prima volta in modo chiaro il tema della felicità irrompe nel mondo del lavoro. Un manager, un tecnico o un professionista che si pone questo tema fino a ieri lo avrebbe fatto vergognandosene. Oggi lo fa alla luce del sole e se non è convinto della risposta che si sta dando, si prende del tempo per pensarci. E intanto cerca altrove maggiore fortuna». 

C’è dell’altro? 

«Io credo che in questo decennio sia definitivamente cambiato il patto psicologico tra impresa e lavoratore. Per patto psicologico io intendo l’insieme delle aspettative reciproche che si instaurano tra le parti, parallelamente alla costituzione formale dell’assunzione. Nel secolo scorso le imprese potevano garantire sicurezza e continuità e in cambio chiedevano fedeltà e identificazione con l’azienda. Oggi i mercati sono troppo volatili e si è costretti a ragionare molto più sul breve. Di conseguenza anche le aspettative reciproche si consumano in tempi molto più ravvicinati e sempre più ci dovremo abituare a rapporti di lavoro più brevi».  

E allora cosa fare? 

«Le aziende sono alle prese con un mismatch professionale senza precedenti. Sul mercato non si trovano le risorse adeguate alle necessità di mercato. Nell’ultima Indagine sul lavoro di Confindustria, uscita ad agosto 2023, il 54% delle imprese intervistate dichiara di incontrare grandi problemi a ricoprire le proprie vacancy. Il sistema Excelsior di Unioncamere indica che a settembre il 48% delle posizioni aperte non è stato chiuso per difficoltà nel reperimento di personale adeguato. Questo ci impone di bloccare quanto più velocemente possibile questa ondata di dimissioni. Cosa non semplice perché l’inflazione comincia a mordere e il costo del lavoro va contenuto, non è certo il momento di scialare. Le imprese hanno fatto molto sul versante del welfare, anche grazie alle facilitazioni fiscali, ma sembra che questi sforzi non abbiano sempre sortito gli effetti desiderati. È giunto il momento di tornare ad agire sulle leve intrinseche della motivazione e del coinvolgimento e non solo sulle leve estrinseche del compensation. L’impresa è prima di tutto una comunità che si è slabbrata in questi anni di covid e che va ricostituita. Dobbiamo porre grande attenzione all’autonomia delle persone, alla loro possibilità di crescita. Investire di più sulla formazione. Porre maggiore attenzione al clima aziendale. Alle dinamiche dei piccoli gruppi. Far lavorare di più le persone in team. In questo i capi intermedi sono vitali. Vanno messi al centro delle nostre attenzioni. Dobbiamo sempre ricordarci che in sede di assunzione si sceglie l’azienda, ma in sede di dimissioni si lascia un capo».  

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