La retribuibilità del “tempo tuta”, tra qualche punto fermo e molte incertezze

Una recente sentenza ha posto l’accento sulla retribuibilità del tempo dedicato a vestirsi per il lavoro. Vediamo di cosa si tratta e gli aspetti rilevanti di questo tema assieme all’avvocato Sergio Codella.

sergio codella

Che cosa rappresenta il “tempo tuta” e perché è una questione controversa?  

 La tematica del cosiddetto “tempo tuta” è da sempre foriera di contenzioso giudiziario e di incertezze giurisprudenziali.  

 Sono infatti molteplici le controversie aventi a oggetto le richieste da parte dei lavoratori di vedersi liquidate somme per il periodo di vestizione e di svestizione della divisa.  

 In un mare magnum di differenti orientamenti, soprattutto della giurisprudenza di merito, è possibile però cercare di definire alcuni minimi comun denominatori che possano fungere da “bussola” per la materia. 

Quali sono i principi fondamentali che aiutano a definire se il “tempo tuta” debba essere retribuito?  

Innanzitutto, l’art. 1 del D.lgs. 66/2003 specifica che, per orario di lavoro, si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore resta a disposizione del proprio datore di lavoro, nell’esercizio delle sue attività lavorative o delle sue funzioni”. Tale principio è stato interpretato nel senso in cui deve essere considerata prestazione (retribuita) esclusivamente l’attività che risulta strettamente funzionale al lavoro e che il dipendente deve compiere secondo le modalità stabilite dal datore. 

L’elemento che permette di distinguere ciò che deve rientrare o meno nell’orario di lavoro è, quindi, l’eterodirezione e, cioè, l’assoggettamento del prestatore alle direttive datoriali in punto di (s)vestizione degli abiti da lavoro. 

Volendo semplificare, si può sostenere che non è retribuibile come “tempo tuta” il periodo impiegato dal dipendente qualora quest’ultimo abbia la facoltà di scegliere il tempo e il luogo in cui indossare la divisa.

Quando il “tempo tuta” diventa retribuibile, e qual è la sfida legata alla sua quantificazione? 

Ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo dove indossare la divisa stessa, la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo necessario deve essere retribuito.  

Ovviamente, l’eterodirezione appare più palese nel momento in cui vi sia, ad esempio, un vero e proprio regolamento aziendale che obblighi di vestirsi e svestirsi in azienda oppure quando la stessa natura degli indumenti imponga che, per esigenze di igiene e sicurezza (si pensi al personale sanitario), sia necessario che le divise siano indossate e dismesse sul luogo di lavoro, senza mai essere portate all’esterno.  

Si può quindi sostenere che quando manca al dipendente il “libero arbitrio” per scegliere come e dove indossare la divisa, non vi sia il diritto alla retribuzione del cd. “tempo tuta”. 

Quali sono le situazioni in cui l’eterodirezione è più evidente, e come influisce sul diritto alla retribuzione? 

Una volta accertata l’eterodirezione, il tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa viene, pertanto, considerato orario di lavoro e come tale deve essere retribuito.  Non è semplice, però, la quantificazione del tempo-tuta e il contrasto giurisprudenziale sull’argomento ne è la conferma.  

Qual è il punto di vista della giurisprudenza in merito alla quantificazione del “tempo tuta,” e quale aspetto rimane incerto in questo contesto? 

Secondo una parte della giurisprudenza, soprattutto di merito, il riconoscimento della retribuibilità del tempo impiegato non può essere rimesso ad una mera scelta discrezionale del lavoratore, ma deve essere parametrato al tempo strettamente indispensabile per eseguire le operazioni in questione secondo la normale diligenza. Inoltre, la retribuzione dovrebbe essere corrisposta soltanto per le giornate di effettiva prestazione lavorativa. 

Un orientamento diverso sostiene che la determinazione della durata del tempo in questione deve essere operata in via equitativa e in misura forfettaria, stante la difficoltà di accertare con precisione il quantum della domanda. 

Se quindi la giurisprudenza sembra avere trovato alcuni punti fermi sulla verifica degli indici rivelatori del diritto alla retribuzione del cd. “tempo tuta”, la situazione appare più incerta in punto di “quantificazione” delle relative pretese economiche. 

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