I principi del coaching per una leadership efficace

L’approccio partecipativo, l’ascolto, la valorizzazione delle competenze acquisite. Sono alcuni dei principi del coaching che Maurizio Avagnale, direttore HR dell’area di business Ride Dynamics del gruppo Marelli, ha fatto propri sul lavoro. Uno stile frutto di studio e fatica, approfondito alla scuola “Allenati per l’Eccellenza”, che però, secondo Avagnale, è il futuro dell’impresa e della gestione delle risorse umane.

Maurizio Avagnale marelli

A capo delle risorse umane dell’area di business Ride Dynamics del gruppo Marelli, Maurizio Avagnale da quasi 25 anni opera in multinazionali industriali e manifatturiere come Manuli e Trelleborg Group. Da un anno è in Marelli. Si è specializzato nelle tecniche di coaching, maturando nuove competenze per migliorare il suo ruolo di manager.

Come si è approcciato al mondo del coaching?

«La mia carriera da manager è cominciata anni fa e, con l’esperienza, mi sono reso conto che gestire le persone usando le competenze da coach ha un impatto migliore sui risultati attesi dal business. Ho sempre avuto ruoli dirigenziali e trovo che lo stile di leadership collaborativo fondato su alleanza e supporto sia più efficace per migliorare le prestazioni, tanto per l’azienda quanto per le persone».

Quando si è avvicinato a questo stile?

«La prima volta che mi sono aperto a una cultura della leadership diversa da quella prevalente in Italia è stato una quindicina di anni fa. Venivo da una realtà aziendale dove era radicato un metodo di lavoro basato per lo più sul comando e controllo. Questo stile di leadership non aveva però riscontri positivi nel Nord Europa o negli Stati Uniti, dove vedevo altri leader muoversi diversamente e con risultati migliori. Da quelle esperienze ho iniziato ad approfondire l’argomento coaching. Il passo successivo non poteva che essere un vero e proprio master, fatto con l’hub formativo Allenati per l’Eccellenza».

Che esperienza è stata?

«È una formazione certificata, stimolante e complessa, perché mette in discussione tutti gli automatismi. Ero abituato a un certo modo di ragionare, per natura tendevo a trovare una soluzione per gli altri. Dopo un percorso di 150 ore teoriche e 100 pratiche, però, impari che ci sono altre modalità per arrivare all’obiettivo e al termine degli studi, della pratica e a fronte del superamento di un esame (non semplice a dire il vero) puoi ottenere le credenziali di Associate Certified Coach concesse da ICF, l’organismo internazionale più importante nell’ambito del coaching».

Il ruolo del leader cambia con questo approccio?

«Come “capi” abbiamo una funzione fondamentale: realizzare con successo gli obiettivi di business attraverso il contributo delle persone che ci sono affidate. Ma possiamo – e, a mio avviso, abbiamo questa responsabilità – far crescere le nostre persone. Rispetto a un metodo basato sul comando e controllo diretto è più proficuo lavorare sulla consapevolezza e sull’acquisizione di responsabilità, ponendo al centro del processo la persona».

I risultati li vede solo nel suo team HR o su tutto il personale che gestisce?

«Il primo cambiamento è nel modo in cui mi rapporto con i miei più stretti collaboratori, ma gli effetti sono a cascata anche tra i colleghi e i loro collaboratori. È normale: quando percepisci gli effetti benefici su di te, poi vuoi replicare. In molti poi mi dicono che stanno utilizzando un approccio simile al mio… caratterizzato da una comunicazione trasparente e forte coinvolgimento».

L’approccio del coaching viene subito accettato da tutti?

«Nei contesti in cui si parte da una cultura fondata sul comando e controllo c’è disorientamento, soprattutto agli inizi, perché ci si aspetta sempre che il capo dica cosa fare e che dia la soluzione a tutto. Il coaching si basa sul principio opposto: la soluzione me la dai tu, dal momento che vivi la realtà e conosci meglio il problema. D’altra parte, non è proprio questo quello che le persone ci chiedono sempre di più: essere ascoltati e coinvolti maggiormente? Anche le tante analisi interne sul clima aziendale lo certificano.».

La cultura del Coaching può essere applicata anche in una realtà industriale come Marelli?

«La cultura Marelli centrata sull’innovazione e sull’eccellenza industriale è una cultura di successo che ha contribuito a rendere l’azienda uno dei maggiori fornitori a livello globale in ambito automotive.  Al tempo stesso, le sfide che viviamo oggi impongono di essere sempre più rapidi, più creativi, più agili e il coaching – mettendo al centro le persone e coinvolgendole in modo proattivo – può aiutare tantissimo a trasformare uno stile già vincente. Devo dire che ho trovato un ambiente molto ricettivo in questo senso».

Un’impostazione a beneficio dell’azienda o è anche un valore aggiunto per il singolo professionista?

«Il mio approfondimento non voleva essere solo l’arricchimento del curriculum ma nasceva dalla volontà personale di valorizzare la mia credibilità come manager, mettendo al centro le esigenze dell’azienda. Quando gestisci persone che lavorano a migliaia di km di distanza da te l’approccio migliore è il pieno coinvolgimento. Oggi ho imparato a frenare l’impulso di dare ordini, ad ascoltare di più e a fare più domande. Da questa impostazione ne guadagniamo tutti».

Questo stile di leadership diventerà sempre più universale?

«Lo spero tanto. Come team HR dell’area di business Ride Dynamics investiremo molto su questo. E mi auguro che lo facciano tutte le aziende… Io, ai colleghi HR di altre aziende che vorrebbero portare innovazione ma operano in un contesto di conservazione, dico di andare avanti, perché dobbiamo essere noi HR il primo agente di cambiamento; ci può stare che un’impresa abbia più difficoltà ad accettare questo stile ma che un HR non sia propenso a questo è inaccettabile».

Che cosa deve fare un buon HR per essere tale?

«Dobbiamo essere più onesti, saper ascoltare di più, comunicare meglio e coinvolgere tanto. Non è così strano trovare HR che, già a partire dalla selezione, non lasciano parlare i candidati… Dobbiamo evitare di amare il suono della nostra voce e cercare di non essere troppo autoreferenziali».

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