Il lavoro “non dichiarato” nello studio della UE. L’avvocato Fava: «Importante introdurre forme contrattuali che non lascino spazio all’illegalità»

Si chiama più comunemente “lavoro sommerso” ma la Commissione Europea lo definisce “lavoro non dichiarato” tutto quel lavoro “non regolare” perché consiste in attività retribuite che però non vengono segnalate alle autorità pubbliche, con implicazioni economiche e sociali rilevanti. Dentro il lavoro non dichiarato c’è tutto, anche quello legato all’economia criminale. Molto difficile stimarne l’entità: ciò che è certo è che questo tipo di attività è una forma di evasione fiscale che oltre tutto abbassa molto la qualità del lavoro.

Gabriele Fava

Tra le cause riconosciute dalla Commissione la crescente precarietà del lavoro, la flessibilità contrattuale in aumento, l’incremento del lavoro autonomo, il subappalto, l’esternalizzazione. Ecco perché la UE si pone una serie di sfide per contrastare il lavoro non dichiarato mettendo in atto strategie e politiche per raggiungere l’obiettivo.  

È tuttavia evidente, come si sottolinea nello studio prodotto dalla UE, che prevenire e scoraggiare il lavoro non dichiarato è un compito in capo innanzitutto ai governi nazionali. Per questo nel 2016 è nata la piattaforma europea «per il rafforzamento della cooperazione volta a contrastare il lavoro non dichiarato, istituita a norma della decisione (UE) 2016/344 del 9marzo 20167» e che «riunisce le autorità e le organizzazioni che combattono il lavoro non dichiarato negli sforzi per affrontare il problema in modo più efficace ed efficiente», come si legge nell’elaborato prodotto dalla UE.   

«Le radici del lavoro non dichiarato sono complesse e multiformi. Fattori economici strutturali come l’elevata tassazione e i costi di conformità possono spingere i lavoratori e i datori di lavoro a evitare le dichiarazioni. Inoltre, le caratteristiche economiche e strutturali di un Paese, come la composizione dell’economia e la dimensione delle imprese, influiscono sulla portata del lavoro sommerso», fa sapere Gabriele Fava, avvocato fondatore dello studio legale associato Fava & Associati, specializzato in diritto del lavoro.  

L’avvocato si sofferma sui punti messi a fuoco dalla Commissione europea: «L’Europa ha adottato un approccio coordinato per affrontare il problema. La piattaforma europea per il rafforzamento della cooperazione nel contrastare il lavoro non dichiarato, creata nel 2016, riunisce autorità e organizzazioni che combattono questa pratica. Questa piattaforma promuove il cambiamento a livello nazionale e cerca di migliorare le condizioni di lavoro e l’occupazione formale», spiega il legale, che aggiunge: «Le misure per combattere il lavoro non dichiarato sono variabili e personalizzate in base alle caratteristiche istituzionali di ciascun Paese. Queste misure potrebbero includere il rafforzamento delle autorità di vigilanza, la cooperazione transfrontaliera, l’uso di tecnologie per il monitoraggio e la semplificazione delle procedure per l’apertura di nuove imprese».  

Fava si sofferma poi sulla situazione italiana: «Nel nostro Paese, in attesa della nuova Finanziaria, si segnala l’intervento degno di nota con la scorsa Legge di Bilancio. Il legislatore ha previsto la reintroduzione della regolazione del lavoro accessorio (che era stato soppresso dal DL Dignità), offrendo un perimetro applicativo più ampio ed eliminando i limiti previsti per alcuni settori come il turismo e l’agricoltura. L’introduzione di tali forme contrattuali altro non è che il tentativo di far rientrare in una categoria legale delle forme di prestazione lavorativa che, diversamente, resterebbero sprovviste di tutela e andrebbero ad aumentare il lavoro sommerso».  

I diversi Paesi europei hanno adottato modalità diverse per affrontare il problema del lavoro non dichiarato. 

L’Italia, come noto, «ha istituito una nuova autorità nazionale, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), che riunisce tre portatori d’interessi: il ministero del Lavoro e delle politiche Sociali, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e l’Istituto Nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL)», si legge nel documento redatto dalla Commissione. Certamente risulta importante lavorare sulle misure preventive, come ad esempio spingere l’utilizzo di innovazioni tecnologiche che migliorino il monitoraggio, ma anche adeguamenti giuridici che distolgano dall’utilizzare in modo improprio le nuove categorie di lavoro.  

Interessante il caso portoghese che con il programma Simplex «consente di costituire un’impresa in un giorno in un solo ufficio». Inoltre «anche un salario minimo e il sostegno al reddito possono contribuire a ridurre la percentuale dei salari non dichiarati, impedendo ai datori di lavoro di corrispondere salari ufficiali al di sotto del salario di riserva, oppure rendendo il lavoro non dichiarato meno interessante per i lavoratori», si legge sempre nel documento UE. 

Certamente, riguardo all’entità del fenomeno, si può sostenere che «le cifre pubblicate da fonti nazionali ufficiali tendono ad essere inferiori a quelle che compaiono in studi condotti da esperti e organizzazioni internazionali». Tuttavia, conclude lo studio, «il Comitato economico e sociale europeo (CESE) ha raccomandato l’adozione di un metodo comune indiretto per misurare la portata, gli effetti e lo sviluppo del lavoro non dichiarato.  

Questo metodo, sviluppato dall’Istituto italiano di statistica, si basa sull’input di lavoro: il confronto fra le dichiarazioni effettive alla previdenza sociale e le dichiarazioni attribuite sulla base dell’Indagine europea sulla forza lavoro» 

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