Lavoro, esperienze all’estero, capacità di adattamento: il valore della laurea

Qual è la condizione occupazionale dei laureati italiani? Quanto “vale” la laurea? Il valore della mobilità e il tema della fuga dei cervelli. Con Ivano Dionigi, presidente di Almalaurea e già Rettore dell’Università di Bologna (2009-2015), abbiamo fatto una panoramica ampia sul tema “laurea e lavoro”

Ivano Dionigi Presidente Almalaurea

Ivano Dionigi, latinista, presidente della Pontificia Accademia di Latinità, già Magnifico Rettore dal 2009 al 2015 dell’Università di Bologna, è il presidente di Almalaurea.  Un consorzio che si definisce un ponte tra università e lavoro. Non solo servizi di orientamento, anche studi e analisi sulla condizione occupazionale dei laureati. Nell’ultimo rapporto (2018) di Almalaurea la fotografia della relazione tra laurea e lavoro in Italia, con focus su molti temi: diritto allo studio, fuga dei cervelli, mobilità sociale, opportunità lavorative.

 

Professor Dionigi, quali sono i dati salienti della condizione occupazionale dei laureati in Italia?

«I dati del XX Rapporto AlmaLaurea mostrano alcuni segni positivi. Il tasso di occupazione, rispetto alla precedente indagine, è cresciuto sia per i laureati di primo livello sia per i magistrali biennali, a uno e a cinque anni dal conseguimento del titolo. Si è mantenuta elevata l’efficacia della laurea e stabili le retribuzioni, mentre i contratti alle dipendenze a tempo indeterminato e il lavoro autonomo, complice anche le difficoltà riscontrate sul mercato del lavoro, mostrano una progressiva diminuzione.

Da evidenziare il lavoro all’estero. Alla storica mobilità per studio/lavoro lungo la direttrice Sud-Nord, che continua a caratterizzare il nostro Paese, si è affiancata infatti da qualche tempo quella verso altri continenti. La quota di laureati magistrali biennali di cittadinanza italiana che, a cinque anni dalla laurea, dichiara di lavorare all’estero, è pari al 6,6%. Nella maggioranza dei casi trovano occupazione in Europa, in particolare nel Regno Unito, Svizzera e Germania. Più contenute le quote di occupati nelle Americhe e in Asia.

Si tratta di giovani mediamente più brillanti, in particolare in termini di voti negli esami e regolarità negli studi rispetto a quanti hanno deciso di rimanere in Italia, che scelgono di trasferirsi all’estero soprattutto per la mancanza di opportunità di lavoro adeguate o perché hanno ricevuto un’offerta di lavoro interessante da parte di un’azienda che ha sede in un altro Paese. Non dimentichiamo inoltre che i laureati oltre confine percepiscono retribuzioni nettamente più elevate: 2.258 euro mensili netti, +65,4% rispetto ai 1.365 euro degli occupati in Italia. E sull’ipotesi di rientro in Italia, lo scenario non è certo edificante: complessivamente, il 36,2% lo ritiene molto improbabile, quanto meno nell’arco dei prossimi cinque anni.

La crescita dell’emigrazione per motivi di studio/lavoro verso il mercato estero è pertanto un fenomeno che, sebbene si sia intensificato proprio negli anni di maggiore crisi economica, può esercitare un peso rilevante sul presente e sul futuro del nostro Paese. Il problema, infatti, non consiste nell’emigrazione dei nostri laureati, dal momento che la mobilità rappresenta di per sé un fattore positivo, bensì nel fatto che questo fenomeno non sia ancora bilanciato da un analogo rientro di lavoratori qualificati, italiani o stranieri. Per questo motivo la “fuga dei cervelli” può rivelarsi un ostacolo reale alla capacità competitiva del Paese. Si è costretti a una duplice e amara ammissione: per questi giovani la laurea non è un passaporto ma un foglio di via; il nostro Paese importa badanti ed esporta laureati, dopo averli formati al meglio a spese dello Stato e dei contribuenti».

 

Quali sono gli elementi del percorso formativo universitario che favoriscono l’occupazione?

«Esperienze di studio all’estero, tirocini curriculari e il lavoro durante gli studi, a parità di condizioni, aumentano le chance di trovare un lavoro a un anno dal conseguimento del titolo di laurea. Nel dettaglio, le esperienze di studio all’estero con programmi europei aumentano le opportunità occupazionali del 14,0%, i tirocini del 20,6% e l’aver lavorato occasionalmente durante gli studi del 53,0%. Inoltre, sfatando qualche credenza errata, trascorrere un periodo di studio all’estero o svolgere un tirocinio curriculare non solo non comporta ritardi nella conclusione del percorso universitario, ma influenza positivamente la probabilità di ottenere elevate votazioni alla laurea».

 

Che differenza c’è, dal punto di vista lavorativo, tra laureati di primo livello e laureati magistrali?

«Una premessa è d’obbligo, la riforma 3+2 ci ha allineato al sistema internazionale, articolato su due livelli, bachelor e master, portando alcuni segni positivi: ha agevolato la mobilità degli studenti universitari; la regolarità degli studi è più che triplicata; è diminuita l’età media dei laureati; è cresciuta la frequenza alle lezioni e la percentuale di laureati che hanno svolto tirocini curriculari. Resta vero che il 58,6% dei laureati triennali – come emerge dall’ultima indagine AlmaLaurea – prosegue con la laurea di secondo livello, percepita come necessaria per avere maggiori chances occupazionali. Questo dato getta più di un dubbio sull’esito e sulle modalità della riforma del 3+2, perché testimonia che la laurea breve o triennale non ha raggiunto lo scopo di formare adeguate figure professionali per il mondo del lavoro; nel formulare i Corsi ci si è preoccupati più dell’offerta che della domanda.

A continuare col biennio, in particolare, sono i giovani che provengono da ambienti familiari socialmente ed economicamente avvantaggiati, a conferma dell’irrisolto problema del diritto allo studio».  

 

Con che tipo di contratto vengono assunti i neolaureati, e che stipendi hanno?

«Nell’ultimo anno sono diminuiti i contratti il lavoro autonomo e a tempo indeterminato, mentre sono cresciuti quelli non standard, in particolare il tempo determinato. Per quanto riguarda gli stipendi: la retribuzione mensile netta a un anno dal titolo è, in media, pari a 1.107 euro per i laureati di primo livello e 1.153 euro per i laureati magistrali biennali».

 

Quali sono le lauree che offrono maggiori opportunità di lavoro e di guadagno?

«Nel confronto tra le lauree cosiddette “forti”, quelle di tipo tecnico-scientifico, e le lauree “deboli”, ovvero quelle umanistiche, è bene tener presente che queste ultime hanno tempi di inserimento e valorizzazione professionali più lunghi. Alla prova dei fatti, ci sono lauree, come ingegneria, professioni sanitarie, quelle dell’area scientifica e chimico-farmaceutica che consentono, fin dal primo anno successivo al conseguimento del titolo, un’ottima probabilità di inserimento nel mercato del lavoro. Sono soprattutto i laureati di ingegneria, delle professioni sanitarie e di quelle economico-statistiche che possono contare sulle più alte retribuzioni: rispettivamente 1.421, 1.315 e 1.291 euro mensili netti.

Le lauree in ambito psicologico, geo-biologico e letterario registrano tassi di occupazione al di sotto della media (inferiore al 65%). E a livello retributivo, non raggiungono i 900 euro mensili i laureati dei gruppi psicologico, educazione fisica e letterario.

E poi ci sono le lauree che hanno bisogno di tempi più lunghi per mostrare una buona realizzazione occupazionale: come quelle in medicina e giurisprudenza.

Significa che non stiamo valorizzando il petrolio del nostro PaeseGli studi umanistici e sociali sono infatti un passe-partout per la modernità, ma sono quelli dove sono anche più diffusi i casi di overeducation, vale a dire che i laureati sono impiegati per ruoli inferiori al titolo di studio conseguito».

 

Perché laurearsi conviene?

«All’aumentare del livello del titolo di studio posseduto diminuisce il rischio di restare intrappolati nell’area della disoccupazione. Generalmente i laureati sono in grado di reagire meglio ai mutamenti del mercato del lavoro, disponendo di strumenti culturali e professionali più adeguati. Certo, il premio salariale della laurea rispetto al diploma, in Italia, non è elevato come in altri Paesi europei, ma è comunque apprezzabile e significativo e simile a quello rilevato in Francia (+54,4%)».

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