TAVOLA ROTONDA

Smart Working? Solo se è utile davvero, non a tutti i costi

È la gallina dalle uova d’oro che mette d’accordo imprese e lavoratori? Il lavoro agile è utile e piace, ma bisogna valutarlo in tutti i suoi aspetti e puntare sulla coprogettazione

Lo Smart Working è uno dei temi centrali in ogni discussione sulle innovazioni organizzative dell’impresa e nel settore HR. È tutto oro quello che luccica? Ne abbiamo parlato con Maria Concetta Ambra, ricercatrice del Disse-La Sapienza, Luigi Andrea Raimondi, direttore Hr di IBM Italia, e Paolo Iacci, presidente di Eca Italia e Aidp Promotion.

Andrea Raimondi

Direttore HR di IBM Italia

Andrea Raimondi è HR manager di IBM Italia da due anni. Prima lo è stato in Amazon Italia (con la gestione della fase di startup), poi ha avuto incarichi sempre nel settore HR di Amazon in Europa. Il suo è un percorso professionale tutto interno al settore delle risorse umane. IBM è stata una delle imprese pioniere del lavoro flessibile. «Le prime esperienze di quello che allora era telelavoro risalgono al 2003 – annota il manager – Furono frutto di un accordo realmente innovativo, erano tempi in cui lavoro agile e smart working erano concetti sconosciuti e non c’era nessuna regolamentazione legislativa. Già allora in IBM si cominciò a ragionare sulla prestazione lavorativa sganciata dalla presenza fisica in un determinato luogo».

 

Raimondi, parliamo di Smart Working, che sembra piacere a imprese e dipendenti.
Che esperienze avete avuto in Ibm?

«Ad oggi circa il 20% degli addetti di IBM Italia lavora secondo i principi dello smart working: è una pratica abbastanza diffusa nella nostra organizzazione».

 

Siete soddisfatti?

«Sullo smart working in IBM, a livello globale, sono circolate diverse notizie, anche contraddittorie. Conviene provare a fare un minimo di chiarezza: siamo una grande società globale, presente in 170 paesi e con circa 400 mila dipendenti. Negli Usa, circa un anno fa, è stato chiesto ad alcune tipologie di lavoratori di tornare a frequentare abitualmente l’ufficio, perché nel tempo si era verificata una situazione estrema: c’erano gruppi di persone che non andavano mai al lavoro in una sede IBM. Questo ha creato problemi, soprattutto quando l’azienda ha deciso di fare proprie modalità di lavoro come il design thinking o la metodologia agile: il non avere persone che si incontrassero, che spendessero del tempo per fare un lavoro insieme, creava barriere all’introduzione di queste nuove modalità. Quindi si è deciso di ritrovare un equilibrio, riportando a una dimensione più sociale l’organizzazione del lavoro. Non è una marcia indietro, ma è rendere ancora più smart lo smart working già implementato».

 

Cosa, secondo lei, non va più bene del lavoro tradizionale con ufficio e orario di lavoro?

«Non mi sentirei di dire, in assoluto, che un’organizzazione tradizionale del lavoro non va più bene. Lo smart working ha il vantaggio oggettivo di facilitare l’engagement delle persone, che possono ottenere una flessibilità maggiore per bilanciare impegni lavorativi e personali. Lo smart working è anche una work life balance opportunity, però è importante garantire che ci sia la possibilità di interagire con l’organizzazione e con i colleghi, per lavorare in team, per agevolare le nuove modalità di cui parlavo prima e anche per evitare rischi di isolamento. Oggi ci sono strumenti di collaborazione molto evoluti, sui quali stiamo continuando a investire, ma è chiaro che l’interazione umana e sociale è un elemento indispensabile per IBM».

 

Perché l’impresa dovrebbe introdurre lo smart working?
Quali sono i vantaggi?

«Ritengo attualmente prematuro fare misurazioni sull’aumento della produttività correlandola direttamente all’introduzione di smart working. Però certamente esiste una correlazione tra l’arrangement lavorativo flessibile e l’engagement: quando il personale è più ingaggiato, tendenzialmente lavora meglio e con risultati migliori. Da questo punto di vista siamo estremamente soddisfatti, non a caso abbiamo lavoro flessibile da 15 anni. Continueremo su questa strada e, ove possibile, continueremo a utilizzare la tecnologia al servizio della produttività, anche nell’ottica di essere ancora più smart. Per chiudere: il nostro outlook sullo smart working è, tutto sommato, positivo».

Maria Concetta Ambra

Ricercatrice DISSE – La Sapienza

Maria Concetta Ambra, ricercatrice del Dipartimento di Studi Sociali ed Economici della Sapienza, è autrice di  “Dal controllo alla fiducia? I cambiamenti legati all’introduzione dello ‘smart working’: uno studio di caso. Una ricerca sul caso di Intesa Sanpaolo, da cui sono emersi elementi determinanti per la buona riuscita di progetti di smart working. Tra tutti: il coinvolgimento del sindacato.

 

Lo smart working sembra la gallina dalle uova d’oro, piace a dipendenti e imprese.
È davvero così?

«Piace molto alle imprese, ed è comprensibile che sia così perché può permettere grandi risparmi. Lo smart working ha aspetti positivi e negativi. Ad esempio un aspetto positivo riguarda la diversa concezione del lavoro svolto in ufficio: a parametri quali la presenza fisica in un luogo e all’interno di un certo orario, si sostituisce il lavoro per obiettivi definiti ed entro determinate scadenze. L’elemento positivo è una concezione del lavoro dipendente svolto con maggiore autonomia, non più vincolato esclusivamente alla presenza fisica sul luogo di lavoro ma valutato in base ai risultati. L’elemento negativo è invece il rischio che questo si traduca in un allungamento dei tempi di lavoro e in una commistione tra tempi di lavoro e tempi di vita, alimentando dinamiche di “auto-sfruttamento”. Questo è ancora uno degli aspetti meno esaminati nell’attuazione dello smart working ma più controversi. Il rischio è che si generi un vantaggio nel breve termine ma non nel lungo periodo: la dilatazione dei tempi di lavoro e l’annullamento dei confini tra lavoro e vita possono anche influire sulla crescita dei livelli di stress dei lavoratori, con esiti negativi sulla produttività e sulla qualità del lavoro svolto. Per questo motivo è importante che i progetti di smart working siano calati nelle singole realtà stabilendo in modo chiaro quali sono gli obiettivi che portano un’impresa ad attuare questa nuova modalità di lavoro e i motivi per cui i dipendenti la scelgono».

 

Perché il lavoro tradizionale d’ufficio sembra non essere più adeguato a questa fase di economia 4.0?

«I luoghi di lavoro contano ancora e restano importanti, pensi solo al valore delle relazioni tra colleghi. Ad oggi l’organizzazione “smart” del lavoro si aggiunge a quelle tradizionali, non è sostitutiva: quasi tutte le imprese che fanno smart working hanno sempre stabilito un numero massimo di giorni al mese nei quali lavorare in modalità agile; per la maggior parte del tempo si lavora in “modalità tradizionale”».

 

Cosa vuol dire che bisogna passare dal controllo alla fiducia?
Sono pronti dipendenti o “capi” a questo passaggio?

«Passare dal controllo alla fiducia è stato lo slogan che ha guidato i responsabili delle Hr nel caso che ho esaminato. Significa passare da una concezione in cui il capo doveva avere il controllo sul lavoro svolto dai dipendenti, a partire dalla loro presenza fisica in un luogo a un determinato orario, a una concezione nella quale al dipendente viene lasciata maggiore autonomia nel definire tempi e luoghi di organizzazione del proprio lavoro, in vista del raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Nel caso che ho esaminato si è posta molta attenzione alla fase di implementazione del progetto, destinando la formazione iniziale ai capi. Inoltre va chiarito che questo nuovo modo di organizzare il lavoro deve essere una scelta e non un’imposizione e ci deve essere la possibilità di tornare indietro».

 

Qual è l’elemento più importante per la riuscita di un progetto di smart working?

«Tre aspetti sono centrali, ma una premessa è d’obbligo: Il lavoro agile non può essere adottato in tutti i settori economici né per tutte le mansioni esistenti. Si può applicare ai settori e a quelle mansioni che richiedono lo svolgimento di lavoro cognitivo che non necessita di un ancoraggio a un luogo fisico o a un certo orario.

Fatta questa premessa, per la buona riuscita di un progetto di smart working gli elementi più importanti sono i seguenti:

1) il rapporto con i sindacati, che possono contribuire alla definizione insieme ai responsabili delle relazioni industriali o delle risorse umane. Direi che co-progettare lo smart working è determinante per raggiungere gli obiettivi che tengano insieme gli interessi delle imprese e quelli dei dipendenti;

2) la centralità del management nella realizzazione del progetto. Sono i capi che devono accettare in primo luogo un cambiamento dell’organizzazione del lavoro. Questo significa innescare un processo di cambiamento culturale e organizzativo, in grado di produrre anche effetti inattesi da gestire;

3) la volontarietà dell’adesione da parte dei lavoratori e la possibilità di recedere in qualsiasi momento. Lo smart working deve sempre essere una scelta e una opportunità, non un’imposizione».

Paolo Iacci

Presidente Eca Italia e Aidp Promotion

Paolo Iacci, presidente di ECA Italia e di Aidp Promotion e docente di Gestione Risorse Umane alla Statale di Milano.

 

La narrazione più in voga descrive lo smart working come la gallina dalle uova d’oro, piace a dipendenti e imprese. È davvero così?

«Sul concetto di smart working c’è molta confusione. Da sempre noi abbiamo avuto persone che lavoravano in maniera “nomade”, free lance che svolgevano la propria attività da remoto. Non necessariamente tutti i lavori richiedono co-presenza fisica con i colleghi. Un giornalista può svolgere gran parte del suo lavoro fuori dalla redazione e il commerciale è bene che stia molto tempo dal cliente. In questo nessun elemento di novità. Lo Smart Working vuole invece essere un nuovo approccio al nostro modo di lavorare e collaborare all’interno di un’organizzazione in cui alla base ci sono alcuni elementi chiave fortemente interconnessi tra loro:

1) l’organizzazione del lavoro per fasi, cicli e obiettivi, in modo che il lavoratore possa produrre ed essere valutato in relazione a ciò che produce e non per la semplice presenza sul luogo di lavoro;

2) il ricorso a tecnologie collaborative in sostituzione ai sistemi di comunicazione rigidi;

3) la riorganizzazione del layout e degli spazi di lavoro che vanno oltre le quattro mura di un ufficio;

4) l’attenuazione del peso del rapporto gerarchico;

5) la conseguente revisione della leadership e del rapporto tra manager e dipendente (da controllo a fiducia);

6) l’esistenza di meccanismi di premi – punizioni che possano garantire la difesa del lavoratore e dell’organizzazione da potenziali abusi.

Talvolta mi sembra che stia passando una concezione fortemente “riduzionista” dello smart- working, ridotto alla semplice possibilità di stare a casa un giorno alla settimana. Questo elemento da solo, ad esempio, può fare felice il singolo lavoratore, ma non necessariamente incrementa la produttività o garantisce sul lungo periodo la possibilità di conciliare tempi di vita e di lavoro».

 

Lei è sempre stato diffidente da letture troppo ottimistiche sullo smart working, cosa non la convince?

«Facciamo due casi concreti. Una start-up nata due anni fa, dopo il Jobs Act. Organizzata solo su obiettivi molto stringenti, individuali o su piccoli gruppi. Controllo settimanale e chi non raggiunge gli obiettivi è licenziato. L’organizzazione è piatta, le tecnologie collaborative, si può lavorare da remoto quanto si vuole, ma il lavoro agli occhi dei collaboratori sembrerebbe davvero smart?  

Altro esempio: se nella pubblica amministrazione non cambiano la tecnologia, i metodi di lavoro e i meccanismi di premi e punizioni, l’introduzione sic et simpliciter dello smart working rischia di tradursi in una riduzione di orario a parità di stipendio. Se li vede i furbetti del cartellino a lavorare da casa?

La retorica manageriale nasconde il lavoro che serve perché lo smart working funzioni. L’eccessiva semplificazione può creare gravi danni. Non a caso una recente ricerca di Kelly Service indica come il lavoro da casa non sia sempre al top del desiderio dei lavoratori italiani perché temono isolamento e perdita d’identità».

 

In tema di smart working, flessibilità, work life balance e così via, cosa dovrebbe fare un responsabile HR per coniugare benessere del personale ed esigenze di produttività dell’impresa?

«Immaginiamo che lo smart working sia un dipinto. La cornice è costituita dalla legge di riferimento, la 81/2017, ma il paesaggio è dipinto con i concreti comportamenti delle persone, in via di continua trasformazione grazie alle nuove tecnologie e ai mutati assetti organizzativi. Perché il quadro abbia valore non basta limitarsi a quanto prescrive la legge, ma occorre verificare che i processi produttivi siano segmentati. Ciò affinché il lavoratore possa effettivamente lavorare da remoto ma anche essere valutato per ciò che ha effettivamente fatto. I sistemi devono supportare il lavoro in team virtuale senza incidere sulla produttività e i capi devono abituarsi a pianificare e ad assegnare in anticipo obiettivi differenziati ma che si integrino tra loro. Cambia tutto: sistemi, organizzazione, professionalità, cultura organizzativa.  Questo cambiamento va guidato e accompagnato. Ve ne devono essere le condizioni e un vantaggio concreto, sia per il lavoratore, sia per l’impresa. Nel dubbio, astenersi».

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