TAVOLA ROTONDA

A caccia di talenti con l’Employer branding

Nell’economia 4.0 sono sempre più importanti le competenze. L’Employer branding è uno degli strumenti di maggiore successo per attrarre e trattenere i migliori talenti. Il segreto è avere una buona strategia, è vietato improvvisare

L’Employer branding è una delle parole del lavoro del futuro: contano i talenti e servono strumenti per attirarli e trattenerli, ma bisogna farlo con professionalità, partendo dai valori, dalle azioni concrete e dalla partecipazione. Ne abbiamo parlato con Francesco De Nobili, docente e esperto di digital marketing; Omer Pignatti, amministratore delegato di Homina Comunicazione; Andrea Paoli, direttore Hr di Rekeep.

Francesco De Nobili

Docente e esperto di digital marketing

Francesco De Nobili si occupa di consulenza, formazione e ricerca in Digital Marketing da più di 10 anni. Laurea in Sociologia con specializzazione in Marketing e in Comunicazione d’Impresa. Insegna all’Università di Bologna e collabora con diversi Atenei, Master di alta formazione e Business School. Si occupa anche della creazione di progetti di employer branding.

Professore, intanto circoscriviamo il tema: cosa intendiamo per employer branding?

«Il riuscire a trovare una modalità comunicativa, attraverso i propri dipendenti, che permetta all’impresa di comunicare i propri valori e le proprie caratteristiche. Una modalità che può anche non partire in maniera strutturata dall’area marketing o dalla comunicazione, ma ha origine in maniera un po’ più “naturale” perché i contenuti nascono dagli stessi dipendenti. È una forma molto più trasparente, grazie alla quale le aziende possono ottenere ottimi risultati sia in termini di comunicazione esterna, che interna, avere maggiore visibilità per i propri prodotti o servizi ma anche catturare nuovi talenti».

Perchè per un’impresa è importante fare employer branding?

«I motivi di fondo sono due: il primo è dovuto al fatto che abbiamo una possibilità tecnologica molto alta, grazie alle forme di condivisione rese possibili dai social network, e in questo caso penso soprattutto a LinkedIn, che offre una grande visibilità e algoritmi meno limitativi dei contenuti che si vogliono comunicare, rispetto agli altri social. L’utilizzo di LinkedIn oggi permette di aver un ottimo bacino di utenza, segmentato in funzione di quello che è il pubblico di riferimento o il settore aziendale. Il secondo motivo è dato dalla consapevolezza delle aziende di avere bisogno di professionalità con una formazione a “T”, cioè una profonda competenza verticale o specialistica ma anche importanti competenze trasversali: una di queste è proprio il saper comunicare le proprie attività all’interno e all’esterno e il saper comunicare i progetti dell’azienda che si vivono nella propria quotidianità lavorativa: produzione, lavoro in team, capacità di lavorare meglio grazie a smart working o team building. Tutto questo, se comunicato in maniera spontanea, ha un grande impatto verso l’esterno».

Solo comunicazione?

«Non solo, ma comunicazione comunque. I progetti di employer branding sono tesi a dare valore e a far emergere all’esterno le scelte dell’azienda in materia HR management. La comunicazione serve a portare la conoscenza dei fenomeni fuori dall’azienda e i new media sono quelli più adatti a recepire questa tipologia di attività comunicativa».

Come sono strutturati i progetti?
Chi decide l’organizzazione?

«I progetti di employer branding sono progetti aziendali. La strategia è aziendale ma i dipendenti, in piena autonomia, possono decidere se partecipare in funzione delle proprie capacità di gestione degli strumenti online ma non solo. Sta a loro comunicare il proprio modo di vivere l’azienda e i suoi valori. Non è facile farli emergere, non stiamo parlando di attività di marketing: sono elementi che emergono solo se c’è un vero riconoscimento del dipendente nei valori aziendali. I progetti di employer branding, per funzionare, hanno bisogno di sostanza. Una qualunque narrazione non reale farebbe crollare il castello in un attimo».

Che ruolo hanno  gli HR manager?

«Molto è nelle loro mani, sono proprio loro i più adatti a trovare quei dipendenti che hanno le migliori caratteristiche per partecipare all’employer branding».

Le imprese sono consapevoli dell’importanza di questa attività?

«L’Italia, rispetto a quello che si vede nel resto del mondo, è un po’ indietro. Ma devo anche dire che quest’anno ho partecipato a molti progetti e per il 2019 ce ne sono ancora di più in cantiere. Qualcosa si muove anche se c’è ancora un po’ di confusione. La possibilità di partire con un progetto, scegliendo una piattaforma prioritaria come può essere LinkedIn, aiuta molto perchè consente di superare uno dei principali problemi, cioè la paura di dover gestire strumenti diversi e poco conosciuti. L’innovazione d’impresa, una narrazione coerente e soprattutto il welfare aziendale portano buoni risultati in termini di attrazione di talenti».

Ci sono specifiche tipologie di aziende che devono fare employer branding e altre no?

«Lo possono fare tutte le imprese e serve a tutte, ma occorre coerenza: il racconto dei progetti, degli obiettivi e dei valori che si va a fare deve corrispondere alla realtà che si vive quotidianamente nell’impresa: a maggiore visibilità corrisponde maggiore responsabilità».

Perchè, in questi progetti, è importante anche la comunicazione interna?

«È fondamentale perché prima di rivolgersi all’esterno ci si guarda in casa per individuare i valori, le attività o i progetti da comunicare. In molti casi ci si rende conto che gli elementi che sono più apprezzati all’interno non sono mai stati valorizzati. Faccio un esempio concreto: sanità integrativa o forme pensionistiche integrative sono fattori di attrattività di nuovi talenti e di fidelizzazione di chi c’è già, spesso però la direzione aziendale non attribuisce a questi strumenti questo grande valore. La comunicazione integrata interna serve a fare ordine e far emergere la realtà dei fatti, a far dialogare gli uffici tra di loro e, di conseguenza, ad abituare tutti a ragionare in maniera integrata».

Omer Pignatti

Amministratore delegato di Homina Comunicazione

Omer Pignatti, fondatore e amministratore delegato di Homina, società di comunicazione e relazioni pubbliche fondata nel ‘91. Da oltre 30 anni si occupa di comunicazione per primarie imprese nazionali e istituzioni.

Pignatti, cosa c’entra la comunicazione con l’employer branding?

«L’employer branding è, sostanzialmente, un progetto di comunicazione…»

Basta una newsletter e qualche post sui social?

«Allora, rimettiamo le cose a posto. Al centro c’è la strategia dell’impresa, i suoi valori, la sua reputazione come datore di lavoro, le azioni concrete messe in campo per il personale: smart working, benefit, flessibilità, incentivi economici ecc. Poi il pacchetto deve essere comunicato per creare valore condiviso, per rafforzare l’immagine e la reputazione dell’impresa, per diventare orgoglio e patrimonio della comunità aziendale».

E qui entra in gioco la comunicazione interna…

«La comunicazione interna è fondamentale, proprio come fattore di trasparenza e coinvolgimento del personale. Sa quante volte l’ufficio A non sa cosa fa l’ufficio B? Succede molto più spesso di quanto ci si possa immaginare. Ma la comunicazione interna serve soprattutto ad ingaggiare i dipendenti: sono loro i principali influencer, non servono webstar. Aggiungo, senza svelare nessun segreto, che in questa fase è importante la comunicazione tout court. Piaccia o non piaccia: esiste chi comunica».

A che punto sono le imprese?

«La situazione è estremamente variegata, ma c’è un ritardo generale nell’approcciare progetti di employer branding o di comunicazione. Qualcosa si muove, soprattutto sull’onda delle grandi corporation e delle imprese innovative che operano sui mercati internazionali. A loro serve per consolidare posizioni di leadership, per tutti gli altri presto diventerà una questione di sopravvivenza».

Quali sono gli strumenti di un progetto di employer branding?

«Parlo solo dal versante comunicazione. Gli strumenti sono innumerevoli: team building, sistemi di instant messaging, corporate anniversary, job meeting, road show, eventi aziendali, creazione di rapporti con università e centri di formazione… L’elenco è sterminato, ma sono solo strumenti. Il cuore, come provavo  a dire prima, sono i valori, le azioni e la strategia».

Che consigli darebbe ad un imprenditore?

«Provo a dirla nella maniera più chiara possibile. Nell’economia 4.0 conteranno sempre più le competenze, quelle hard ma ancor di più le soft skill. Attrarre o trattenere talenti è una questione vitale per l’impresa, per ogni tipo di impresa, tutte devono ripensare la propria organizzazione. Per questo è importante fare employer branding, per questo è importante non improvvisare ma affidarsi a professionisti seri».

Andrea Paoli

Direttore Hr di Rekeep

Andrea Paoli, 47  anni, è Direttore Personale e Organizzazione di Rekeep S.p.A. dal 2017. In precedenza, dopo la laurea in Ingegneria Elettronica al Politecnico di Milano, ha lavorato in diverse aziende, tra cui Gewiss e il Gruppo Hera.

Quali sono le caratteristiche dei vostri progetti di employer branding? Che risultate avete avuto?

«Abbiamo avviato proprio a partire dalla scorsa primavera un’ampia riflessione sulle nostre politiche finalizzate all’employer branding in concomitanza con il rebranding del nostro gruppo che dal luglio scorso ha cambiato nome da Manutencoop Facility Management in Rekeep.  Mentre non abbiamo mai difficoltà ad attrarre candidati per posizioni operative, facciamo più fatica a “raccontare” che Rekeep offre anche un’ottima opportunità di crescita per laureati, ad esempio, in ambito informatico o ingegneristico. Il nostro nuovo pay off “Minds that work” vuole proprio fare emergere le “menti” ovvero la progettazione che si nasconde dietro l’attività operativa. I nostri progetti di employer branding vanno in questa direzione: abbiamo attivato un focus group composto dai più giovani tra i neo assunti per raccogliere punti di vista e nuove idee e, sulla base di quanto emerso dal gruppo, sono stati potenziati vari strumenti. Abbiamo studiato una campagna dal titolo “Realize your potential” che stiamo declinato su diversi canali di comunicazione e avviato un restyling radicale dell’area “careers” del sito web (che sarà on line all’inizio del 2019). È stata, inoltre, potenziata la nostra presenza su Linkedin e, soprattutto, abbiamo pianificato una più frequente partecipazione agli eventi del settore come job meeting e careers day. Parallelamente sono state intensificate le relazioni con Università e Business School: offriamo molte opportunità per progetti di tesi in tutte le funzioni aziendali e siamo parte attiva nella progettazione didattica e docenza in percorsi specialistici e di sviluppo manageriale. Insomma il nostro principale obiettivo, in questa fase, è farci conoscere meglio e devo dire che ci stiamo riuscendo. Ad esempio i curricula che riceviamo sono decisamente aumentati sia dal punto di vista del numero che dell’allineamento con le nostre ricerche».

Perché è importante fare employer branding?

«Il mercato del lavoro è sempre più competitivo e la concorrenza tra le imprese, in particolare per settori come quello dell’Information Technology, è fortissima. Per attrarre e fidelizzare giovani di talento che si affacciano sul mercato del lavoro non è sufficiente offrire concrete opportunità di lavoro ma è necessario “raccontarsi” in modo efficace facendo leva sui propri punti di forza. Questo è fare employer branding e per questo è importante. Google, per fare un esempio, è attrattiva a prescindere per qualsiasi neo laureato in informatica e facilmente riceverà i migliori curricula. Brand meno noti per attrarre quegli stessi laureati devono fare uno sforzo in più per far conoscere quello che possono offrire, che non sarà una postazione in Silicon Valley ma magari un lavoro stabile, con grandi prospettive di crescita  e più vicino a casa».

Quali sono le figure che cercate maggiormente?
Che riscontri avete dai ragazzi negli eventi a tema lavoro a cui partecipate?

«La nostra sfida è, ogni giorno, far “funzionare” città e imprese. Migliorare la qualità degli immobili e il comfort di chi ci vive dentro è il nostro obiettivo. Servono immaginazione per “vedere” i servizi del futuro, visione d’insieme per pianificare attività complesse, competenze specialistiche ma anche flessibilità per riuscire ad anticipare le esigenze dei clienti e rispondere con soluzioni innovative. Ed è questo che cerchiamo in chi vuole lavorare con noi. Guardando alle figure cosiddette “di staff” selezioniamo costantemente ingegneri, informatici, project manager, laureati in amministrazione, finanza e controllo che, come dicevo, sono il motore fondamentale per l’organizzazione dei nostri servizi. Sono le figure che cerchiamo principalmente anche attraverso gli eventi, dove otteniamo riscontri molto positivi. Dall’ultimo “Career Day” di Bologna siamo rientrati in ufficio con più di duecento curriculum molto validi».

Come coinvolgete il personale dipendente nel fare da brand ambassador o da influencer verso i potenziali candidati?

«L’individuazione di veri e propri brand ambassador è l’ambito su cui stiamo lavorando: è il prossimo step del piano che abbiamo avviato».

Quali sono i plus del lavorare in Rekeep?

«Lavorare in Rekeep significa integrarsi in un “mondo” che premia la capacità di innovazione e fa crescere i propri “talenti”. Significa avere l’opportunità di fare la differenza nella costruzione dei servizi e delle città di domani. Significa stabilità ed entrare in una grande impresa dove oltre il 96% dei dipendenti sono assunti a tempo indeterminato, sono costantemente coinvolti in progetti di formazione e sviluppo e possono contare su un ricco welfare aziendale».

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