Evoluzione digitale: l’impatto della digital transformation nel settore privato e nella Pubblica Amministrazione

In linea con le tendenze internazionali, l’Italia procede verso la digitalizzazione, cui la pandemia ha impresso ulteriore impulso, specie nelle aree del cloud computing, dei big data e della cyber security. Cambiamenti che, se gestiti in modo accorto, potranno portare a un aumento di posti di lavoro e a una migliore qualità della vita, e che invece, se lasciati a se stessi, esporranno il Paese al rischio di skill gap, ineguaglianze e polarizzazione della forza lavoro. In che modo imprese e pubbliche amministrazioni stanno affrontando la digitalizzazione dei servizi e dei processi? Come è possibile alzare ulteriormente gli standard qualitativi e quantitativi? Ne abbiamo parlato con Gianluca Grondona, Chief HR, Organization & Systems Officer di Webuild, che sarà tra i protagonisti dell’appuntamento Officine Risorse Umane, in calendario a Venezia il 23 e 24 ottobre 2021.

Gianluca Grondona

«La pandemia ha fatto capire a tutti, anche a quelli che ancora non lo capivano, che cambierà tantissimo il modo di lavorare delle aziende, che gli strumenti che ci consentono di lavorare in remoto, in virtuale, sono ormai una realtà e che siamo in un ciclo ormai ineluttabile». Gianluca Grondona è Chief HR, Organization & Systems Officer del gruppo Webuild, in cui guida a livello globale le direzioni Risorse Umane, Organizzazione, Information Technology & Digital, Qualità, Salute, Sicurezza e Ambiente. Laureato in Scienze Politiche all’università di Genova, ha precedentemente lavorato a livello internazionale con Fiat Auto e Indesit Company, di cui è stato il CHRO.

Dottor Grondona, questa accelerazione sul digital nelle imprese e nella pubblica amministrazione in Italia può generare caos se non governata, creare nuove diseguaglianze, o è comunque positiva perché sta colmando i nostri gap?

«Come avviene con l’introduzione di ogni nuova tecnologia c’è una grande trasformazione culturale da fare. La tecnologia senza un cambio di atteggiamento e di abitudini rimane abbastanza sterile. Oggi assistiamo ancora a una divaricazione tra quelli che abbracciano la tecnologia e quelli che invece le resistono, come sempre avviene. E poi ci sono ancora quelli che non hanno accesso alle nuove tecnologie a causa dei suoi costi. Ci vorrà ancora qualche anno per la completa fruibilità ma ormai la strada è tracciata».

Cosa si può fare per alzare gli standard quantitativi e qualitativi delle imprese ma anche per migliorare la vita dei dipendenti?

«Da un lato abbiamo un disequilibrio a livello planetario che riguarda tutto il tema del digitale. Ci sono due grandi blocchi digitali: quello nordamericano, con giganti come Google, Amazon, Facebook, Apple, Netflix e Microsoft (i cosiddetti GAFAM), e quello cinese, con Baidu, Alibaba, Tencent e Xiaomi (i cosiddetti BATX). L’Europa, ahimè, è fuori dai giochi: non ha nessun gigante digitale. Queste sono aziende che hanno una disponibilità di liquidità incredibile e che quindi possono decisamente influenzare sia i cambiamenti tecnologici che le abitudini e i consumi. Diciamo che l’Europa non sta giocando un ruolo da protagonista e l’Italia ancor di meno. D’altra parte, però, l’Italia avrebbe nuove opportunità derivanti dal fatto che con lo smart working ognuno potrà scegliere da dove lavorare, e noi abbiamo il più bell’ufficio del mondo! Il nostro Paese è ricco di storia, di cose belle… e allora guardiamo come hanno fatto i Paesi Baltici, ad esempio, che si sono resi attrattivi ai giovani talenti con idee per start up grazie alla de-burocratizzazione, a un sistema Paese che le fa crescere. Però se uno potesse scegliere dove lavorare fisicamente tra i Paesi Baltici l’Italia, credo che non ci sarebbe neanche partita. Il problema è che oggi su tutte le condizioni di contorno dobbiamo lavorare tanto, per fare sì che ci sia un’attrazione di giovani talenti che creino degli unicorni, delle aziende diverse che possano veramente cambiare».

Questa accelerazione nella digitalizzazione dei processi si sta scontrando in Italia con una penuria di competenze nel digitale?

«Si, come al solito noi sulla programmazione predittiva delle competenze non lavoriamo molto, sia nelle aziende che dal lato politico governativo. Però adesso abbiamo una grande ondata che cambierà tanto anche la nostra professione, ovvero il progressivo aumento di assistenti virtuali, robot, e in generale tutto quello che la tecnologia sta facendo diventare in maniera sempre più affidabile dei nuovi collaboratori delle imprese. L’assistente virtuale, dal chatbot al robot, ha bisogno di essere formato per riuscire a dare valore aggiunto alle aziende, quindi penso che andremo verso una “H&HR Management” cioè Human and Humanoid Resources Management. Certo, sto guardando molto avanti, ma questo creerà una nuova sociologia dell’organizzazione. Umanoidi può sembrare un termine un po’ dispregiativo, ma rende il concetto di aiutanti dell’uomo robotizzati, con i quali dovremmo interagire, trasferendo il know how, insegnando la cultura aziendale, ecc. Dall’altra parte questo significherà moltiplicare le capacità di elaborazione dati, le potenzialità fisiche con gli isoscheletri, dando vita a una nuova interazione collaborativa tra gli umanoidi e gli umani, dove chi fa HR dovrà sicuramente essere in grado di giocare un ruolo diverso. Non serviranno solo skill tecniche, perché la tecnologia è sempre più semplice da utilizzare, ma serviranno molto di più le competenze di chi sa scrivere i testi per questi nuovi collaboratori, di chi sa psicologicamente e sociologicamente studiarne l’interazione, insomma di chi ne arricchirà la conoscenza e la socializzazione. Ci sarà spazio anche per skill soft applicate a questo tipo di interazione: questi saranno collaboratori che hanno bisogno di essere formati, di avere istruzioni, e quindi si apriranno nuove professioni che oggi non immaginiamo nemmeno. Siamo alle soglie secondo me di un grandissimo cambiamento organizzativo portato dalla tecnologia e dalla cultura, un processo irreversibile».

Potremmo paragonare questi cambiamenti a quelli portati dallintroduzione dei computer nel mondo del lavoro, o delle macchine nella rivoluzione industriale?

«Beh se parliamo di potenzialità si potrebbe. Si tratta di capire quali sono i tempi di rilascio e di crescita di una nuova tecnologia e di adozione culturale. Però direi che ormai la strada è tracciata, abbiamo capito che si può lavorare in virtuale, si possono utilizzare gli assistenti virtuali, i robot possono fare tanti compiti, anche se oggi sono ancora in una fase embrionale. Pensiamo a quando ci arrabbiamo con Siri perché non ci capisce, ma Siri o Alexa impareranno a poco a poco e diventeranno come dei colleghi. Il ruolo dell’HR sarà anche quello organizzativo di capire come tutti questi flussi di dati diventano utili per l’organizzazione, in modo tale da poter essere fruiti da tutti, elaborati e trasformati in decisioni per l’azienda. Si apre un’epoca secondo me molto interessante per chi lavora nelle risorse umane e nelle organizzazioni».

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