Gender gap: avanti a passi di lumaca ma l’Italia resta indietro

Donne e lavoro, progressi troppo lenti. Solo in Grecia c’è un tasso di occupazione femminile peggiore di quello italiano. Servono riforme radicali per non disincentivare la partecipazione delle donne al lavoro, ma il tema è completamente assente dall’agenda politica

gender gap in italia

Sul lavoro esiste, e non da ora, una questione femminile: il gender gap, il peso dell’assistenza che ricade prevalentemente sulle donne, il congedo che è sempre di maternità… e chi più ne ha più ne metta. Ci sono territori virtuosi sulla partecipazione delle donne al lavoro, ma i numeri del Paese sono spietati: anche nel 2018 l’Italia registra un tasso di occupazione femminile più basso della media europea – 48,9% contro 62,4%, secondo l’Istat – piazzandosi penultima nella classifica Ue. Peggio di noi fa solo la Grecia. Nel meridione, è particolarmente difficile la situazione delle giovani tra i 25 e i 34 anni, età di avvio del percorso lavorativo. Mentre in Europa lavora il 70,5% delle donne in questa fascia di età, in Italia la media si ferma al 52,7% e solo grazie alla buona performance delle regioni del Nord. Al Sud, infatti, la percentuale si ferma al 34,2% con la Calabria e la Sicilia che non arrivano al 30%.

Le ragioni sono tante, alcune anche strutturali, ma non c’è dubbio che tocchi alla politica ripensare un sistema che non incentiva alla parità. Servono riforme per far diventare l’Italia un paese per donne che lavorano, almeno alla pari degli stati dell’Unione.

Una riforma a “costo zero” sarebbe quella di obbligare le imprese, ma anche la PA, a rendere noti gli stipendi medi di donne e uomini. Alcuni Paesi europei lo fanno, con l’obiettivo di diminuire il gender pay gap: in Italia, nel privato, le donne guadagnano il 18% in meno degli uomini a parità di mansioni.

Poi c’è tutto il tema dei servizi, per piccoli e anziani, dell’assistenza a persone disabili o non autosufficienti, e dei congedi parentali: i timidi percorsi di innovazione introdotti negli anni scorsi, hanno dato risultati scarsi.

Colpisce l’assenza dal dibattito politico di questi temi, non c’è grande spinta a trovare soluzioni radicali ai problemi, anche se sotto traccia qualcosa si muove, grazie anche a leggi che hanno imposto obblighi: è aumentata la percentuale delle donne che ricoprono ruoli di vertice nelle società controllate da pubbliche amministrazioni. Dai dati elaborati da Cerved Group per il Dipartimento per le pari opportunità, emerge che al 30 settembre 2018 le donne rappresentano il 32,1% dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società pubbliche non quotate, facendo registrare rispetto ad aprile 2014 un aumento di quasi 14 punti percentuali.

Lievi miglioramenti, non soddisfacenti, anche per il gender gap: in base all’ultimo rapporto dell’European Institute for Gender Equality (Eige), è lento il progresso verso la piena uguaglianza di genere nell’Ue: l’indice globale – misurato su lavoro, ricchezza, conoscenza, tempo, potere e salute – è aumentato in dieci anni di 4,2 punti. L’Italia, però, ha fatto registrare i più significativi miglioramenti, con un incremento dell’indice di circa 13 punti nell’ultimo decennio.

Il Dipartimento delle Pari Opportunità ha messo in campo progetti per favorire la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, superando quelle rigidità che pesano soprattutto sulle donne che hanno carichi familiari, ma serve uno sforzo titanico per iniziare a correre e non accontentarsi di quei progressi a passo di lumaca (e a volte di gambero), come li ha definiti Virginija Langbakk, direttrice dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere.

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