HR in azienda e consulente fuori: si può?

Il Direttore HR può (o non può) svolgere delle consulenze esterne? È consentito avere incarichi professionali fuori dall’azienda? Ci siamo chiesti come, soprattutto chi lavora nella funzione risorse umane, possa mettere a disposizione la propria esperienza anche all’esterno del rapporto di lavoro e come farlo in modo adeguato.

Intervista a Sergio Codella su dipendenti HR e consulenze esterne

Con l’avvocato Sergio Alberto Codella, Partner in Orsingher Ortu – Avvocati Associati, abbiamo esplorato modalità e criticità di gestire consulenze esterne mentre il dirigente HR è in forza presso un’azienda. 

In generale, un dipendente può svolgere delle consulenze esterne?

Fino a un recente passato, la risposta sarebbe stata negativa. Infatti, nel nostro ordinamento giuridico, l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ. veniva declinato come un obbligo di esclusiva da parte del dipendente a tempo pieno, con il divieto di svolgere qualsiasi altra attività in favore di soggetti diversi dal proprio datore.

Oggi le cose sono cambiate o, almeno, vi è una maggior flessibilità del sistema: l’art. 8 del D.lgs. n. 104/2022 (il cd. Decreto trasparenza) dispone che il datore non può vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività al di fuori dell’orario di lavoro.

Quindi un responsabile HR può svolgere liberamente attività consulenziali?

Non proprio. Lo stesso art. 8, al suo secondo comma, pone dei limiti, precisando che il datore può vietare lo svolgimento di un altro rapporto lavorativo qualora sussista una delle seguenti condizioni: 

  1. a) un pregiudizio per la salute e la sicurezza; 
  2. b) la necessità di garantire l’integrità del servizio pubblico; 
  3. c) il caso in cui la diversa attività lavorativa sia in conflitto d’interessi.

Cosa indica il Ministero del Lavoro?

Codella illustra che sul punto è intervenuto anche il Ministero del Lavoro (con circolare n. 19 del 2022) chiarendo che la sussistenza di tali tassative condizioni deve essere verificata in modo oggettivo. Per cui è importante notare come il conflitto di interessi, anche alla luce degli orientamenti maturati in materia di anticorruzione, ricorre quando l’ulteriore attività lavorativa, pur non violando il dovere di fedeltà di cui all’articolo 2105 cod. civ., comporti, anche potenzialmente, interessi in contrasto con quelli datoriali.

“È capitato per esempio – spiega – che sia stata eccepita dal datore la possibilità di svolgere un’attività consulenziale in quanto incidente nel medesimo settore produttivo datoriale. Tale limitazione è risultata illegittima in quanto assiomatica. In altre parole, per impedire a un Responsabile HR di svolgere attività di consulenza, il datore di lavoro deve motivare la propria scelta con elementi effettivi e specifici”.  

Questo significa che una risorsa HR non deve avvertire nessuno prima di iniziare a svolgere attività consulenziali?

No, non significa questo. Proprio il Ministero del Lavoro ha precisato che i principi generali di buona fede e correttezza impongono ai lavoratori di offrire un’informativa in favore del datore. 

Infatti, al riguardo, vi sono stati alcuni contenziosi in cui il Responsabile HR non aveva comunicato nulla e il datore aveva licenziato il dipendente non tanto per lo svolgimento di attività potenzialmente in concorrenza, ma per avere taciuto un’informazione comunque dovuta. Quindi per non correre rischi è sempre preferibile comunicare preventivamente la volontà di assumere altri incarichi e ciò per evitare asimmetrie informative che potrebbero determinare delle conseguenze disciplinari molto severe.

Queste regole stanno quindi determinando dei contenziosi?

“Certamente, stanno emergendo nuove casistiche.” commenta Codella, e illustra che ultimamente, vi è stata una questione piuttosto complessa che ha riguardato un Direttore HR licenziato per lo svolgimento di attività di consulenza esterna, anche se non in concorrenza. 

La questione si è incentrata sul fatto che il contratto di lavoro – sottoscritto dopo l’entrata in vigore del cd. Decreto trasparenza – prevedeva un regime più rigido di quello stabilito a livello normativo, impedendo sostanzialmente lo svolgimento di qualsiasi ulteriore attività. La clausola rischiava di essere ritenuta illegittima perché peggiorativa rispetto a quanto previsto a livello legislativo, ma nelle more si è addivenuti ad un accordo transattivo.  

Codella conclude spiegando che in questo caso “Personalmente ritengo che vi fosse un alto rischio di dichiarazione di invalidità della pattuizione individuale. In sostanza, quindi, gli spazi di svolgimento di attività diverse da quella “principale” si sono certamente allargati”.

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